- di Grist
- Questo articolo è uscito su Grist lo scorso marzo ed è qui ripubblicato nell'ambito del progetto di collaborazione giornalistica globale Covering Climate Now.
Fin dall’antichità, l’attività mineraria è stata un affare sporco. Nonostante l’evoluzione di strumenti, sostanze chimiche, macchinari e tecniche, oggi l’estrazione di minerali si basa ancora principalmente sullo scavare la terra. Mentre il mondo incrementa la produzione delle tecnologie necessarie per abbandonare i combustibili fossili, questa pratica diffusa che va a disturbare terra ed ecosistemi sembra destinata a continuare vista la crescente corsa a minerali critici come litio, cobalto, nichel e terre rare.
Ma se ci fosse un altro modo? O meglio ancora, molti altri modi. Dopo tutto, i minerali di cui abbiamo bisogno non si trovano solo sottoterra. Essendo i mattoni fondamentali di gran parte della materia del mondo, questi elementi si trovano ovunque: nelle piante, negli oceani, nei rifiuti industriali e persino nelle rocce che sfrecciano nello spazio. Nonostante la capacità di ricavare da queste fonti una quantità di minerali sufficiente ad alimentare la transizione energetica sia ancora lontana, scienziati e imprenditori stanno lavorando duramente per capire se ciascuna di queste alternative possa competere con i metodi di estrazione tradizionali. Nel farlo, sollevano anche domande difficili su quanto ancora dovremo spingere l’ingegno umano per affrontare la sfida della transizione energetica e su quanto potrà mai essere “pulita” anche la forma più avanzata di “estrazione”.
Estrarre minerali dall’acqua
Da oltre un secolo, scienziati eccentrici sognano di estrarre metalli preziosi dalla risorsa più vasta del pianeta: gli oceani. I mari contengono milioni, se non trilioni, di tonnellate di oro, cobalto e altri elementi, tra cui un quantitativo di litio 17mila volte superiore a quello presente nei giacimenti terrestri. A differenza di forme più controverse di estrazione come il deep-sea mining che comportano il dragaggio dei fondali oceanici, questi minerali disciolti possono essere estratti direttamente dall’acqua marina.
Negli anni 20 del Novecento, il chimico tedesco Fritz Haber elaborò un piano per estrarre oro dall’acqua del mare, con l’obiettivo di aiutare la Germania a ripagare i debiti della prima guerra mondiale. Ma a differenza di altre sue scoperte rivoluzionarie - fu l’inventore dei processi sintetici che portarono sia all’agricoltura moderna sia alla guerra chimica - questo progetto non diede alcun risultato concreto, nemmeno dopo anni di ricerche condotte in laboratori segreti su navi tedesche. Nei decenni successivi, Stati Uniti, Regno Unito e Giappone hanno studiato l’acqua del mare come possibile fonte di uranio, ma senza grandi successi. Il problema di fondo è sempre stato lo stesso: gli elementi presenti nell’oceano sono così diluiti che estrarli costa spesso più del loro valore di mercato.
Oggi, di fronte all’incombente carenza di minerali critici, gli scienziati stanno rinnovando i loro sforzi per superare questo ostacolo. E lo stanno facendo puntando su una fonte inaspettata: le alghe. I ricercatori del Pacific Northwest National Laboratory a Sequim, nello stato di Washington, stanno esplorando il potenziale di un tipo di alga marina in grado di concentrare naturalmente minerali a livelli migliaia di volte superiori rispetto all’acqua circostante.
Per anni, il laboratorio ha studiato un’ampia classe di organismi fotosintetici che comprende fitoplancton, alghe marine e kelp con un obiettivo completamente diverso: produrre biocarburanti rinnovabili. Le alghe venivano coltivate in vasche, poi private dei composti organici utilizzabili come carburante. Questo processo lasciava un residuo polveroso, denso di minerali non utilizzati. Inizialmente, i ricercatori non si resero conto del potenziale di questo sottoprodotto di scarto. Scott Edmundson, uno degli scienziati del laboratorio, ricorda quando se ne accorse: “Oh, qui ci sono molti minerali che stiamo davvero sottovalutando”.
Nell’ambito di un programma sperimentale del dipartimento dell’energia statunitense, la squadra di ricercatori ha sviluppato un sistema che pompa acqua marina in vasche a terra contenenti un tipo di alga marina che ama particolarmente i minerali chiamata Ulva. Una volta raccolta e essiccata, l’alga viene trasformata in una polvere ricca di minerali, chiamata “bio-minerale”. Questa polvere contiene elementi preziosi come nichel, cobalto e terre rare in concentrazioni migliaia di volte superiori a quelle dell’acqua marina. Ad esempio, la concentrazione di neodimio, un elemento essenziale per le turbine eoliche, può arrivare fino a 479mila volte il livello presente nell’acqua marina di partenza.
Il sogno di estrarre oro, cobalto e altri minerali critici direttamente dall’acqua di mare è ancora lontano dall’essere commercialmente realizzabile. Ma scienziati come Edmundson e altri come Maha Haji, ricercatrice della Cornell University che ha progettato filtri minerali da appendere alle piattaforme petrolifere abbandonate per estrarre cobalto dal golfo del Messico - credono che l’estrazione mineraria dall’acqua di mare abbia il potenziale per rivoluzionare il modo in cui il mondo si procura i minerali.
“Se riusciamo a far funzionare questo sistema in modo responsabile dal punto di vista ambientale, avremo un potenziale enorme per ricavare i minerali di cui abbiamo bisogno in modo sostenibile ed equo”, ha affermato Edmundson. “Se hai accesso all’oceano, hai accesso ai minerali.”
— Jesse Nichols
Estrarre minerali dalle piante
Ogni primavera, le strade di montagna dell'Albania si riempiono improvvisamente di piante gialle dai fiori piccoli e dalle foglie oblunghe. Parente di broccoli, cavoli e senape selvatica, Odontarrhena chalcidica si è adattata sapientemente ai terreni rocciosi di questo paese balcanico, inadatti alla maggior parte delle altre specie vegetali a causa dell’alto contenuto di nichel. O. chalcidica non solo sopravvive in questo ambiente per altri ostile, ma ne sfrutta la tossicità a proprio vantaggio: assorbe il nichel dal terreno e lo immagazzina nelle foglie e nei fusti, un meccanismo che, secondo i botanici, funge da difesa contro predatori e malattie.


L'Odontarrhena chalcidica è una pianta che cresce nei biomi temperati. Il suo areale si estende dalla penisola balcanica alla Turchia (Konstantinos Barsakis/Natura Hellenica).
Ma questa strategia difensiva potrebbe anche rendere questa pianta dall’aspetto insignificante uno strumento fondamentale per la transizione verso l’energia pulita. Da anni, gli scienziati sanno che piante come O. chalcidica, note come iperaccumulatrici, possono essere raccolte e bruciate per estrarre il nichel contenuto nelle loro cellule. Questo processo si chiama fitoestrazione (o fito-mining). Ora anche le aziende stanno iniziando a interessarsi alla questione con l’idea di applicare la fitoestrazione su una scala tale da poter effettivamente incidere sulla domanda globale di nichel, utilizzato per fare pannelli solari, turbine eoliche e batterie al litio per veicoli elettrici.
Tra queste aziende c’è Metalplant, una startup fondata quattro anni fa da tre imprenditori americani e albanesi. Metalplant ha collaborato con ricercatori dell’Università agraria di Tirana per trasformare O. chalcidica da semplice erbaccia a coltura di valore. L’azienda stima che questa pianta possa produrre tra i 200 e i 400 chili di nichel per ettaro in una sola stagione di crescita. In teoria, ciò significa che la domanda mondiale di nichel del 2020 potrebbe essere soddisfatta coltivando O. chalcidica su una superficie di circa 60mila chilometri quadrati, un’area poco più piccola del West Virginia. Anche se Metalplant non ha ancora rivelato i nomi dei suoi acquirenti, l’azienda ha raccolto il suo secondo raccolto lo scorso giugno [2024], contenente alcune centinaia di chili di prezioso nichel.
Eric Matzner, uno dei tre cofondatori di Metalplant, non crede che sia realistico sostituire a breve termine l’intera filiera globale del nichel. Ma immagina che la sua azienda possa offrire una fonte di nichel più pulita - una che non comporti deforestazione, inquinamento di aria e acqua o espropri ai danni delle popolazioni indigene, come avviene in Indonesia, il maggiore produttore mondiale di questo metallo. Anche se oggi le miniere di nichel tradizionali hanno un vantaggio in termini di costi grazie alle loro dimensioni, Metalplant punta a diventare competitiva offrendo un servizio aggiuntivo: la rimozione dell’anidride carbonica. L’azienda utilizza una tecnica chiamata “alterazione avanzata delle rocce” (enhanced rock weathering), che consiste nello spargere rocce frantumate contenenti minerali silicati sulle coltivazioni di O. chalcidica durante la loro crescita. Questi detriti rocciosi non solo reintegrano il nichel nel suolo, aumentando la resa, ma reagiscono anche con l’anidride carbonica presente nell’aria intrappolando in forma solida il gas serra, che così viene poi lavato via dalla pioggia e va a depositarsi nell’oceano.
Il risultato, che l’azienda definisce “nichel a impatto carbonico negativo”, può essere acquistato da case automobilistiche interessate a compensare le proprie emissioni. In teoria, ciò potrebbe consentire a un veicolo elettrico di dichiararsi carbon neutral per l’intero ciclo di vita. E non sono solo le case automobilistiche a essere interessate: i ricercatori dell’Università della Lorena a Nancy, in Francia, hanno avviato una collaborazione con il produttore di acciaio Aperam per utilizzare nichel fitoestratto nella produzione di acciaio inossidabile. Nel marzo dello scorso anno, il dipartimento dell’energia degli Stati Uniti ha annunciato che avrebbe finanziato la ricerca sulla fitoestrazione, cercando di rendere il processo più efficiente e aumentarne la portata, con l’obiettivo finale di potenziare la catena di approvvigionamento interna del nichel e ridurre le importazioni (Arpa-e, il programma che gestisce questi fondi, è stato preso di mira dall’amministrazione Trump e il suo futuro ruolo nella ricerca sulla fitoestrazione resta incerto).
Aziende come Metalplant hanno ancora molta strada da fare prima di riuscire a sottrarre acquirenti ai grandi produttori di nichel indonesiani. Ma l’Albania ha alcuni vantaggi: le sue montagne sono ricche di olivina, una roccia ideale per l’alterazione avanzata delle rocce e possiede numerose dighe idroelettriche che forniscono l’energia rinnovabile necessaria per frantumare le rocce e sequestrare il carbonio. Gli agricoltori albanesi, colpiti da raccolti scarsi e un esodo giovanile verso le città o l’estero, sono ben disposti a esplorare nuove opportunità economiche, secondo Matzner. Dal suo punto di vista, “è come se stessimo letteralmente facendo crescere il denaro sugli alberi”.
— Diana Kruzman

Estrarre minerali dai rifiuti
Secoli di attività mineraria, trivellazioni e ricorso ai combustibili fossili hanno lasciato vaste aree degli Appalachi coperte da un’enorme, tossica eredità. Miliardi di tonnellate di ceneri di carbone - il residuo solido lasciato dalla combustione del carbone nelle centrali elettriche - sono sepolte o accumulate all’aria aperta in tutta la regione, avvelenando lentamente il suolo e le acque circostanti. I metalli pesanti fuoriescono dalle vecchie miniere e finiscono nei corsi d’acqua vicini, colorandoli di un arancione acceso per via dell’ossidazione. Gran parte del liquido radioattivo e ricco di minerali usato per trivellare a chilometri di profondità alla ricerca di gas naturale da fratturazione (fracking) viene immagazzinato in pozzi di stoccaggio che possono subire perdite e contaminare le falde acquifere circostanti.
Questi flussi di rifiuti sono tossici in parte proprio perché contengono metalli e minerali provenienti dai giacimenti di carbone e dalle formazioni di scisto da cui estraiamo combustibili fossili. In altre parole - una delle tante ironie della crisi climatica - l’estrazione di combustibili fossili ha riportato in superficie grandi quantità proprio di quei materiali che potrebbero aiutarci ad abbandonare le fonti di energia climalteranti: minerali come litio, cobalto, manganese e nichel, fondamentali per le infrastrutture verdi, come le batterie che immagazzinano energia rinnovabile.
Gli scienziati studiano da decenni il potenziale minerario dei rifiuti del carbone. Ricerche più recenti stanno ora esplorando anche la possibilità di estrarre litio dalle acque reflue prodotte dall’estrazione di petrolio e gas: uno studio del National Energy Technology Laboratory pubblicato lo scorso maggio [2024] suggerisce che fino al 40 per cento della domanda interna di litio potrebbe essere soddisfatta utilizzando le acque reflue del fracking nel Marcellus Shale (questa quantità è ancora “sorprendentemente piccola” rispetto a quella che si prevede sarà la domanda di litio in futuro, secondo Sean O’Leary dell’Ohio River Valley Institute).
Resta da vedere, però, se questi minerali potranno mai essere raccolti a un costo sufficientemente basso da competere con le modalità di estrazione tradizionali. Estrarre minerali critici da rifiuti solidi come le ceneri di carbone è un processo piuttosto dispendioso in termini di risorse ed energia: il residuo bruciato deve essere polverizzato e trattato più volte con acidi e idrossido di sodio, per poi essere dissolto in forma liquida per estrarne gli elementi desiderati (il trattamento del drenaggio acido delle miniere è meno complesso, e quindi meno costoso, perché si parte già da un liquido).
Sebbene alcune aziende private abbiano avviato collaborazioni con università per condurre progetti pilota - come Rare Earth Salts, Aqua Metals e General Electric con la Pennsylvania State University; Montana Resources con la West Virginia University; ed Element Usa con l’Università del Texas ad Austin - restano ancora molti interrogativi sulla reale sostenibilità economica di questa tecnologia. Oltre all’incertezza sulla competitività dei costi, esiste abbastanza materia prima da giustificare gli investimenti negli impianti di lavorazione?
Sarma Pisupati, direttore del Centro sui minerali critici della Pennsylvania State University, sottolinea che ogni giacimento di carbone contiene una miscela unica di minerali e che è difficile stimare la posizione e la quantità di riserve significative di terre rare senza un campionamento diretto in loco. “Abbiamo bisogno di analisi dettagliate e stime delle riserve presenti nel sottosuolo prima di poter investire milioni e milioni di dollari per costruire un impianto”, ha affermato.
Intanto, ci siamo fatti delle prime idee su cosa potrebbero contenere queste riserve. Uno studio del 2024 dell’Università del Texas stima che ci siano circa 11 milioni di tonnellate di elementi di terre rare nei depositi di ceneri di carbone in tutto il paese, ma vi è grande variabilità nel tipo e nella concentrazione di questi elementi tra, ad esempio, i siti di smaltimento in Wyoming e quelli in Pennsylvania. Un altro rapporto dell’ufficio per l’energia fossile e la gestione del carbonio del dipartimento dell’energia sottolinea che la lavorazione di quantità relativamente piccole di questi elementi per migliaia di tonnellate di ceneri di carbone significa che qualsiasi impianto commerciale di estrazione mineraria dovrebbe trovare un altro scopo economico, come trasformare i residui post-lavorazione del carbone in fertilizzanti o additivi per il cemento.
In alternativa, le stesse aziende produttrici di combustibili fossili potrebbero essere incentivate a estrarre i minerali più richiesti dai propri rifiuti. È anche per questo che alcuni gruppi ambientalisti si mostrano scettici riguardo alle promesse dell’estrazione mineraria dai rifiuti dei combustibili fossili, secondo Rob Altenburg, direttore per il clima e l’energia presso l’organizzazione ambientalista PennFuture, con sede in Pennsylvania. Da un lato, un incentivo economico per ripulire e riutilizzare i rifiuti dei combustibili fossili potrebbe rappresentare un vantaggio per gli ecosistemi e le comunità che si trovano ad affrontare l’inquinamento accumulato negli anni.
“Ma quando si offre alle aziende [di combustibili fossili] una nuova fonte di guadagno, si sta creando un beneficio netto per l’ambiente affrontando il problema dei rifiuti o si sta sovvenzionando qualcosa... che finirà per soppiantare un’alternativa più pulita?” ha detto Altenburg.
— Eve Andrews
Estrarre minerali dallo spazio
Uno dei principali problemi legati alla ricerca dei metalli necessari per alimentare la transizione energetica è che i minerali più puri disponibili nella crosta terrestre sono stati esauriti da tempo. Più estraiamo, più ci troviamo a dover cercare riserve di qualità inferiore e più difficili da raggiungere.
Per aggirare i crescenti costi ambientali associati allo sfruttamento del nostro pianeta per accedere alle sue ricchezze, imprenditori e ingegneri hanno iniziato a volgere gli occhi al cielo. Sperano che le rocce primordiali rimaste dalla formazione del sistema solare, che vagano tra i pianeti incontaminate da eoni, possano fornire tutti i metalli di cui l’umanità potrebbe aver bisogno nei secoli a venire.
“L’estrazione mineraria dagli asteroidi è l’unica soluzione ideata finora che rappresenti un approccio olistico per rendere più pulita l’industria mineraria”, afferma Matt Gialich, fondatore e amministratore delegato della società californiana AstroForge.
AstroForge e una piccola manciata di concorrenti stanno proponendo modi diversi per estrarre materiali da un asteroide e riportarli sulla Terra. Ma questo settore nascente è ancora agli albori: a oggi, solo tre missioni - nessuna delle quali privata - sono riuscite a visitare gli asteroidi vicini alla Terra e a rientrare con dei campioni.
Tuttavia, a fine febbraio, la navicella spaziale Odin di AstroForge ha ottenuto un passaggio a bordo del razzo Falcon 9 di SpaceX, insieme ad altri veicoli diretti sulla luna. Se la missione avrà successo, Odin sarà la prima spedizione commerciale nello spazio profondo della storia a percorrere centinaia di milioni di chilometri prima di sfrecciare accanto all’asteroide bersaglio per fotografarlo e confermarne la composizione metallica (Dopo il lancio, però, Odin è sembrato intraprendere una lenta e incontrollata rotazione verso lo spazio profondo. Gialich e il suo team hanno perso il contatto con la sonda. Più si allontana, minori diventano le probabilità di successo).
Gli asteroidi metallici sono obiettivi ideali per l’estrazione mineraria spaziale, grazie all’alta concentrazione di elementi preziosi, come nichel, cobalto, ferro e metalli del gruppo del platino, che potrebbero contenere (finché una sonda non visiterà con successo uno di questi corpi celesti, possiamo solo basarci su stime ottenute da meteoriti che si ritiene provengano da asteroidi simili). Inizialmente, le attività minerarie spaziali si concentrerebbero su platino e affini, tra i metalli più preziosi sulla Terra: una tonnellata di platino supera i 30 milioni di dollari, mentre una tonnellata di nichel ne vale circa 20mila. Gialich stima che le future missioni minerarie di AstroForge potrebbero fruttare una tonnellata di platino ciascuna.
In un secondo momento, una volta dimostrata la redditività del progetto e avviata l’estrazione di ferro, nichel e cobalto, Gialich e altri sperano che l’industria mineraria spaziale possa portare a una moratoria sulle attività minerarie terrestri.
“Penso che se avremo successo”, dice Gialich, “questo renderà illegale l’estrazione di metalli preziosi sul pianeta”.
Prima, però, ci sono molti problemi da risolvere. Attualmente, secondo il Trattato sullo spazio extra-atmosferico del 1967, nessuna nazione può rivendicare diritti territoriali su altri corpi celesti, che si tratti della luna, di un asteroide o di Marte. Tuttavia, alcune legislazioni nazionali recenti hanno concesso a stati e aziende la licenza di estrarre materiali e rivendicare legalmente la proprietà di tutto ciò di cui possono fisicamente appropriarsi.
Più importante ancora, nessuno sa con certezza qual è il metodo migliore per estrarre questi metalli. Alcuni propongono l’uso di sostanze chimiche speciali per sciogliere i materiali e filtrare gli elementi desiderati. Altri immaginano rastrelli magnetici capaci di setacciare la polvere asteroidale e separare le particelle contenenti metalli preziosi. Un recente studio ha persino ipotizzato l’uso di razzi termici nucleari per fondere gli asteroidi, raccogliere i materiali fusi in crogioli e separare i metalli tramite evaporazione.
Anche se si dovesse trovare un metodo efficace e i calcoli tra costi e ricavi risultassero positivi, l’estrazione mineraria spaziale solleva interrogativi più profondi. I lanci necessari per spedire veicoli minerari nello spazio profondo richiederebbero enormi quantità di carburante, contribuendo all’inquinamento degli strati alti dell’atmosfera e danneggiando la biodiversità. La stessa attività mineraria, se non adeguatamente regolamentata, potrebbe persino generare nuovi flussi di meteoriti che potrebbero mettere in pericolo i satelliti che forniscono servizi cruciali alla popolazione terrestre.
Nonostante le difficoltà, molti nel settore sostengono che i loro sforzi non solo renderanno la transizione energetica più sostenibile, ma saranno anche un passo necessario affinché l’umanità possa evolversi oltre la “culla terrestre”. Ma vale davvero la pena spingersi verso l’ultima frontiera se non abbiamo ancora imparato a muoverci con cautela?
— Syris Valentine
Nell'immagine di apertura, le strade di montagna che ogni primavera si riempiono di piante gialle dai fiori piccoli e dalle foglie oblunghe dall’alto contenuto di nichel, Albania (Laboratorio di Fisiologia vegetale dell'Università di Firenze).