In questo numero di Lapilli, partiamo da una buona notizia: secondo un recente rapporto della Commissione generale per la pesca nel Mediterraneo (dall’inglese, Gfcm), l'organizzazione regionale di gestione della pesca che opera nell'ambito dell'Organizzazione per l'alimentazione e l'agricoltura (Fao) delle Nazioni unite, nell'ultimo decennio lo sfruttamento eccessivo degli stock ittici nel Mediterraneo è diminuito in modo significativo, mentre l'acquacoltura ha registrato una rapida crescita nella regione.

Intanto, dopo una conferenza sul clima in Brasile segnata da difficoltà logistiche e tensioni politiche, arriva la conferma che il prossimo summit si terrà in Turchia, riposizionando il Mediterraneo al centro di molte delle discussioni.

Novembre, però, è anche il mese delle piogge intense e quando queste cadono in luoghi in cui la guerra ha costretto milioni di persone a spostarsi e ha distrutto infrastrutture essenziali, le condizioni non possono che aggravarsi, come sta accadendo a Gaza.

Dedichiamo poi spazio alla terra. Nell’entroterra marocchino, le cooperative di donne che avevano dato impulso alla produzione dell’olio di argan stanno subendo pressioni crescenti. Mentre in Siria, alcuni agricoltori, tornati nelle loro case dopo anni di conflitto, stanno recuperando e coltivando nuovamente i semi tradizionali locali.

Infine, una piccola, grande notizia per noi di Magma e speriamo anche per voi che ci leggete: abbiamo stampato il primo numero cartaceo di Magma Magazine. Vederlo e toccarlo è stato un momento speciale. Le copie pre-ordinate durante la campagna di crowdfunding sono già partite e il magazine è al momento disponibile a Palermo (Libreria del mare), Firenze (Paperback Exchange), Bologna (Libreria modo infoshop) e presto anche a Madrid (con un evento in programma a gennaio a Espacio Late). Seguiranno aggiornamenti.

Nel frattempo, come sempre, buona lettura!

Alcuni stock in ripresa, acquacoltura in aumento. È da poco uscito il rapporto sullo stato della pesca nel Mediterraneo e nel mar Nero redatto dalla Gfcm. La nota positiva è che la pressione della pesca sulle risorse ittiche è diminuita del 50 per cento nell’ultimo decennio. I progressi sono visibili per diverse specie chiave sul piano commerciale: triglia e gambero rosso mostrano riduzioni nette della mortalità da pesca, mentre le specie soggette a piani di gestione specifici registrano un recupero superiore alla media. Nell’Adriatico, la sogliola comune ha visto aumentare la propria biomassa del 64 per cento dal 2019 a oggi, mentre nel mar Nero il rombo chiodato ha registrato una riduzione dell’86 per cento della mortalità da pesca e un incremento del 310 per cento della biomassa dal 2013.

Rimane invece sotto osservazione la sardina che, dopo anni di sovrasfruttamento, continua a mostrare segnali di sofferenza. Anche il nasello europeo evidenzia segnali di recupero ancora modesti, nonostante una riduzione del 38 per cento della mortalità da pesca dal 2015, con un’ampia variabilità tra le subregioni.

Se quindi da un lato la pressione della pesca sta diminuendo, dall’altro cresce la quota di pesce proveniente da acquacoltura marina e in acqua dolce. Per la prima volta il rapporto offre una panoramica dettagliata di questo settore. L’acquacoltura nel Mediterraneo e nel mar Nero genera 9,3 miliardi di dollari (7,9 miliardi di euro) e produce quasi 3 milioni di tonnellate di cibo. Nel 2023 gli allevamenti hanno prodotto 940mila tonnellate di prodotti ittici, oltre il 45 per cento del totale.

La produzione è fortemente concentrata su poche specie: solo undici rappresentano il 99 per cento del totale, tra le quali spiccano branzino europeo (29,7 per cento) e orata (34,5 per cento). Analogamente, otto paesi producono il 95,5 per cento degli alimenti acquatici da allevamento nella regione, con Turchia (400mila tonnellate), Egitto (147mila) e Grecia (139mila) in testa.

Il rapporto sottolinea come, se è vero che sono stati compiuti progressi significativi nella riduzione della sovrapesca, resta ancora molto da fare per garantire una gestione sostenibile dell’acquacoltura, soprattutto considerando che il settore continuerà a crescere nei prossimi anni (The Fish Site; Middle East Monitor).

Attività di pesca nel golfo del Leone, Francia (©Maxime Gruss/Gfcm)

Cop31 in Turchia. Si è da poco conclusa a Belém, in Brasile, la trentesima conferenza sul clima delle Nazioni unite, o Cop30, da conference of the parties. Secondo molti, si è trattato di una delle Cop meno efficaci. L’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura globale entro 1,5 gradi, come stabilito a Parigi dieci anni fa, sembra ormai un lontano ricordo.

Non sono stati fatti grandi passi avanti né sulla transizione ecologica, né sulla riduzione dei gas serra, né sulla deforestazione. Vista la location, si è comunque parlato di Amazzonia. Il che fa sperare che la prossima Cop, che si terrà in Turchia, riporterà l'attenzione sul Mediterraneo, una delle regioni che si sta scaldando più rapidamente al mondo.

Se vuoi sapere cosa è successo a Belém, oltre ai vari disagi logistici, ti suggeriamo un riassunto in cinque punti della Bbc e un articolo più lungo su Grist.

Piogge a Gaza. Era già accaduto l’anno scorso ed è successo di nuovo. A Gaza, le piogge invernali diventano un ulteriore incubo per la popolazione sfollata che vive nelle tende: l’acqua, sommata alle macerie e all’assenza di infrastrutture per la raccolta e il drenaggio, trasforma intere aree in pantano.

In base al cessate il fuoco, Israele dovrebbe consentire l’ingresso quotidiano di centinaia di camion di aiuti, compresi i materiali necessari per ripararsi dalla pioggia. Ma secondo le agenzie umanitarie, gli aiuti restano insufficienti e mancano strumenti essenziali per drenare l’acqua, gestire i rifiuti e consolidare le strutture.

Molti sfollati raccontano difficoltà crescenti: l’impossibilità di asciugare vestiti e coperte, il costo elevato del legname per scaldarsi, il cibo da cucinare su fuochi all’aperto resi inutilizzabili dalla pioggia. Le famiglie vivono nella paura dell’arrivo di nuove perturbazioni, mentre le condizioni nelle tendopoli continuano a deteriorarsi (The New York Times).

Chi guadagna con l’olio di Argan? L’olio di argan, tra i prodotti più ricercati dall’industria cosmetica globale, viene estratto dai semi dell’albero di Argania spinosa, una pianta che cresce quasi esclusivamente in Marocco. Tradizionalmente prodotto dalle donne locali attraverso un lavoro manuale lungo e faticoso, questo olio ha visto crescere enormemente la domanda internazionale, favorendo la nascita di numerose cooperative femminili, spesso presentate come esempi di emancipazione e sviluppo.

Col tempo, però, molte di queste cooperative sono state assorbite o schiacciate da filiere dominate da intermediari e multinazionali, che acquistano l’olio grezzo a prezzi irrisori per poi trasformarlo e rivenderlo con margini elevatissimi. A peggiorare ulteriormente la situazione ci ha pensato la siccità degli ultimi anni, che ha ridotto le foreste di argan di quasi il 50 per cento.

Oggi la maggior parte del valore economico non rimane alle lavoratrici: molte ricevono compensi minimi, hanno scarsa voce nelle decisioni e vengono talvolta utilizzate soprattutto come “vetrina” per strategie di marketing rivolte al mercato globale (Internazionale).

La nuova vita dei semi siriani. Nel piccolo villaggio siriano di al-Dheibeh, a sud di Aleppo, un gruppo di contadini si è riunito per scambiarsi semi tradizionali, anche detti “baladi”, ovvero varietà a impollinazione libera tipiche di queste zone. A differenza dei semi industriali detti “ibridi”, progettati in laboratorio per produrre abbondantemente una sola volta e poi morire sterili, rendendo gli agricoltori dipendenti dalle aziende che li producono, i semi “baladi” sono lignaggi viventi, ripiantati e riselezionati a ogni stagione.

Durante la lunga guerra in Siria, scoppiata nel 2011, molte persone sono fuggite dalle proprie case e gran parte dei terreni agricoli è stata danneggiata. Alcuni contadini, però, hanno portato con sé questi semi tradizionali, proteggendoli come preziosi cimeli di famiglia ovunque andassero, tra cui il vicino Libano. È proprio nel paese dei cedri che nel 2016 è nata un’organizzazione non governativa chiamata Buzuruna Juzuruna, che significa “i nostri semi sono le nostre radici”, per salvare queste varietà mentre la Siria era in preda al caos.

Contadini, rifugiati e volontari hanno lavorato insieme per evitare che centinaia di ortaggi, erbe, cereali, piante medicinali e fiori scomparissero. Ora che alcune zone della Siria sono più sicure, questi semi vengono riportati a casa e ripiantati.

I semi tradizionali, rispetto a quelli industriali, crescono meglio nelle condizioni in cui sono nati e selezionati negli anni, mantengono i suoli più sani, preservano più biodiversità e aiutano le comunità a essere più autonome. Piantandoli di nuovo, gli agricoltori si augurano di ripristinare l'ambiente e il loro senso di appartenenza dopo anni di guerra civile (New Lines Magazine).

La lotta di una donna per salvare gli ulivi del Libano. Sempre in tema di guerra e attaccamento alla propria terra, suggeriamo un breve documentario ambientato in Libano, dove i bombardamenti al fosforo hanno bruciato, tra le altre cose, anche gli ulivi di Nouhad, una signora di 81 anni che si trova a fare i conti con una perdita che rappresenta molto di più di un semplice terreno coltivato (Al Jazeera).

GUGLIELMO MATTIOLI
Producer multimediale, ha contribuito a progetti innovativi usando realtà virtuale, fotogrammetria e live video per il New York Times. In una vita passata faceva l’architetto e molte delle storie che produce oggi riguardano l’ambiente costruito. Ha collaborato con testate come The New York Times, The Guardian e National Geographic. Nato e cresciuto a Genova, vive e lavora a New York da oltre dieci anni.

Grazie per aver letto fino a qui. Ci vediamo a gennaio, o prima con Lapilli+.

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