Nel mar Mediterraneo, risorse marine già impoverite dalla pesca eccessiva si trovano a fare i conti con i cambiamenti climatici. Il riscaldamento delle acque, insieme alla riduzione dei livelli di ossigeno disciolto e all'acidificazione (ovvero la diminuzione del pH), costituisce un'ulteriore fonte di stress per specie già alle prese con sfruttamento eccessivo, inquinamento e altre pressioni causate dall'uomo. Tutto questo ha effetti a cascata anche sulle persone che per vivere dipendono dalla pesca.

Lo scorso dicembre, in occasione della conferenza "Il clima mediterraneo che cambia: quando l'adattamento diventa una priorità", tenutasi a Barcellona, Nathalie Hilmi, economista ambientale del Centro scientifico di Monaco, è intervenuta sul tema dell'adattamento della pesca nel Mediterraneo rispetto a questo scenario in evoluzione. Prendendo spunto dalla sua presentazione, abbiamo parlato con lei di come la pesca nel Mediterraneo possa adattarsi agli effetti del cambiamento climatico, essere meglio gestita per consentire alla vita marina di ricostituirsi e persino, in parte, contribuire a mitigare la crisi climatica.

Per molto tempo, la pesca eccessiva è stata l’attività umana che ha minacciato maggiormente la vita nel Mediterraneo. Sebbene nel 2021 la percentuale degli stock ittici sovrasfruttati sia scesa al 58 per cento nel Mediterraneo, la maggior parte degli stock è ancora pescata oltre la soglia di sostenibilità biologica. In aggiunta, negli ultimi decenni, le popolazioni ittiche stanno subendo una miriade di altre pressioni legate alle attività umane: inquinamento, riduzione dei livelli di ossigeno disciolto, degrado degli habitat e riscaldamento causato dalle emissioni prodotte dalla combustione di fonti fossili. Questo sta portando alcune specie a spostarsi alla ricerca di temperature più congeniali, a ridurre le proprie dimensioni per riuscire ad adattarsi meglio al clima che cambia o a essere meno abbondanti. Secondo questo studio pubblicato su Ecological Economics, importanti specie di interesse commerciale, come lo spratto e la sogliola, potrebbero essere tra le più colpite dai cambiamenti climatici nel Mediterraneo. Allo stesso tempo, specie che ben tollerano temperature più elevate hanno iniziato a diffondersi in aree in cui in precedenza non erano presenti. Con Nathalie Hilmi abbiamo cercato di capire qual è la posta in gioco per la pesca nel Mediterraneo.

NATHALIE HILMI: In qualità di esperta in macroeconomia e finanza internazionale, Hilmi è alla guida del dipartimento di economia ambientale del Centro scientifico di Monaco dal 2010. Il suo lavoro, all'intersezione tra scienze ambientali ed economia, si è concentrato principalmente sugli impatti socioeconomici e sui costi dell'azione contrapposta all'inazione in materia di emissioni di CO2. Hilmi è stata anche tra le autrici principali del rapporto speciale "Oceano e criosfera in un clima che cambia" del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc) e, sempre per l’Ipcc, del volume "Impatti, adattamento e vulnerabilità" dell’ultimo rapporto di valutazione sulle conoscenze scientifiche sui cambiamenti climatici.

Questa intervista è stata leggermente modificata per facilitarne la lettura. La maggior parte è stata condotta tramite Google Meet. Alle ultime quattro domande è stato invece risposto via email.

Cosa minaccia e come può la pesca nel Mediterraneo adattarsi agli impatti del cambiamento climatico?

Le minacce più importanti sono tre: riscaldamento delle acque, diminuzione dei livelli di ossigeno disciolto e acidificazione. In particolare, nel Mediterraneo, l'aumento delle temperature fa spostare pesci [che di solito si trovano nelle acque meridionali] verso nord. Alcune specie stanno scomparendo a causa del riscaldamento del mare. Quindi, forse, un modo per adattarsi è cambiare le specie che peschiamo e mangiamo. Questo vale per il pesce scorpione [ma anche per altre specie esotiche che si stanno espandendo nel Mediterraneo].

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