Abbiamo scelto di iniziare questo 2024 dedicando ampio spazio a storie che parlano di chi si impegna per l’ambiente, grazie a un recente lavoro di Michele Borzoni e Rocco Rorandelli, vincitori della sezione grant della quarta edizione del premio italiano di fotografia dedicato alla sostenibilità Ispa. Ci spostiamo poi nella penisola iberica per toccare il tema della prevenzione degli incendi boschivi, in Cisgiordania per evidenziare alcune delle ripercussioni della guerra sull’ambiente e sul delta del Nilo per parlare dell’impatto dell’innalzamento del livello del mare sull’agricoltura. Grazie inoltre al commento di Nathalie Hilmi del Centro scientifico di Monaco ripercorriamo i punti salienti dell’ultima conferenza sul clima conclusasi a dicembre a Dubai. E, infine, ci salutiamo viaggiando virtualmente con l’ibis eremita dalla Germania alla Spagna. Buon anno e buona lettura!

Costruire comunità per salvaguardare l’ambiente. Come parlare di cambiamento climatico in modo che non sia disfattista e generi solo ecoansia? Nel cercare di rispondere a questa domanda - che anche noi di Magma ci poniamo spesso - Michele Borzoni e Rocco Rorandelli del collettivo di fotogiornalisti TerraProject hanno attraversato la penisola per incontrare e fotografare varie realtà impegnate nella difesa dell’ambiente. L’hanno potuto fare grazie alla quarta edizione di un premio, l’Italian sustainability photo award (Ispa), di cui si sono aggiudicati la sezione grant con We - Comunità per la difesa dell’ambiente.

“Il progetto di Michele Borzoni e Rocco Rorandelli affronta con un linguaggio pulito ed essenziale un tema di stretta attualità: come vivere in maniera sostenibile attraverso scelte collettive e consapevoli”, si legge tra le motivazioni della giuria presieduta dal giornalista e scrittore Mario Calabresi. Dopo avere da tempo documentato le azioni di disobbedienza civile che gruppi di attivisti climatici e ambientali fanno per richiamare l'attenzione sulla necessità di abbandonare le fonti fossili, “l'idea che abbiamo proposto” per questo grant, dice Borzoni, voleva “raccontare un ambientalismo più costruttivo e anche delle soluzioni”.

Nasce così We, noi, un progetto che racconta chi attorno alla salvaguardia dell’ambiente costruisce comunità. Un esempio su tutte Driade, un'associazione di volontariato nata per raccogliere fondi per la riforestazione del monte Cairo, nel frusinate, colpito nel 2017 e 2020 da devastanti incendi dolosi, per contrastare il degrado del suolo e la desertificazione. Negli anni Driade è riuscita a mobilitare persone da tutta Italia per effettuare direttamente le operazioni di riforestazione. Le uscite che l’associazione organizza vedono dai 20 ai 150 volontari raccogliere semi d’estate e piantarli nelle zone bruciate in autunno.

A sinistra, la foresta del monte Cairo dove i volontari di Driade hanno piantumato più di 80 ettari di terreno con circa un milione e mezzo di semi di alberi e arbusti pionieri. A destra, Danilo Mollicone, ecologo forestale dell'Organizzazione delle Nazioni unite per l'alimentazione e l'agricoltura (Fao) e coordinatore scientifico del progetto di riforestazione del monte Cairo svolto da Driade.

Il tutto è coordinato da Danilo Mollicone, esperto in ecologia forestale che lavora alla Fao. “[Mollicone] conosce il luogo, conosce le varietà arboree, conosce l'ecologia della zona”, racconta Rorandelli. Ed è attento “a ricreare una ricchezza, una biodiversità boschiva” anche in funzione della fauna che vive in quei luoghi, come l’orso marsicano. Inoltre il progetto di riforestazione di Driade ha destato l’interesse della comunità scientifica proprio perché parte dai semi e non dalle piante piccole, come si fa di solito, con costi molto elevati.

Comunità scientifica che è anch’essa tra le protagoniste del progetto We, per esempio, con le attività del Muse, il museo delle scienze di Trento, attivo nel tenere traccia di quelli che sono gli impatti dei cambiamenti climatici sugli ecosistemi alpini e l’avifauna.

In prossimità di bocca di Caset, dove un tempo i cacciatori posizionavano delle reti metalliche con tutt'altri fini, i ricercatori del Muse dal 1997 catturano con delle reti in tessuto gli uccelli migratori, per inanellarli, studiarne le popolazioni e gli effetti della crisi climatica.

“Per molti uccelli il cambiamento climatico significa, per esempio, un cambio nel momento di inizio della migrazione”, spiega Rorandelli. “Ci sono anche dei cambiamenti nel numero di individui appartenenti a una specie che nelle stagioni, e in base anche quindi ai cambiamenti del clima, subiscono delle variazioni. Alcuni uccelli sono più suscettibili a un inverno particolarmente mite e quindi la primavera successiva ne trovi meno. Ma trovi magari altre specie che sono diventate più abbondanti”.

A sinistra, le reti utilizzate dai ricercatori del Muse per catturare e censire le popolazioni di uccelli transitori lungo la catena alpina. Per secoli il valico di bocca di Caset è stato usato nella caccia agli uccelli. Oggi le reti servono non per uccidere ma per contribuire alla scienza della conservazione dell’avifauna e degli ecosistemi naturali in generale. A destra, Emanuela Granata, Giovanni Colombo e Corrado Alessandroni, tre ricercatori incaricati dal Muse di catturare e inanellare gli uccelli migratori che sorvolano bocca di Caset, osservano un gruppo di cacciatori che hanno abbattuto un camoscio in una cengia sottostante il valico.
A sinistra, un esemplare di lepre bianca o lepre variabile (Lepus timidus) nella collezione di zoologia dei vertebrati del Muse di Trento. La lepre bianca vive alle medie e alte quote ed è una specie estremamente esposta ai mutamenti climatici. A destra, un campione di Vipera berus o marasso conservato presso le collezioni del Muse di Trento. I mutamenti climatici stanno estendendo alle vipere comuni habitat in quote elevate, causando disturbi agli equilibri ecologici e intensificando la competizione tra specie.

Grazie inoltre alle collezioni secche e umide del museo, che vanno indietro nel tempo di quasi duecento anni, è possibile avere un’idea di quelli che sono alcuni cambiamenti significativi per l’ecosistema alpino legati all’innalzamento delle temperature, come il restringersi degli areali delle specie tipiche di montagna e la maggiore competizione con altre specie. Il marasso, ad esempio, era l'unico serpente a spingersi fino a 2.500 metri, spiega Rorandelli. Con l’aumento delle temperature si trova a convivere con altre vipere che ora riescono a spostarsi più in alto. Lo stesso vale per la lepre alpina, che si ritrova sempre più frequentemente a competere per le risorse con la lepre di pianura, mentre prima era l'unica che riusciva a sopravvivere in montagna.

Oltre a riforestazione, avifauna ed ecosistemi alpini, il progetto We racconta anche chi si occupa di agrobiodiversità, come ad esempio l’associazione Rete semi rurali di Scandicci, in provincia di Firenze. Gli scatti qua sotto, infatti, mostrano l’interno della zona a temperatura e umidità controllata dove l’associazione conserva molte varietà di semi antichi ormai abbandonate dall’industria agroalimentare.

A sinistra, la banca del germoplasma di Rete semi rurali a Scandicci, Firenze, un’organizzazione di varie associazioni che promuovono la gestione collettiva dell’agrobiodiversità, puntando a una maggiore diversificazione e opponendosi alle monocolture intensive e all’agricoltura fondata con logiche estrattive. A destra, un dettaglio dell’inventario dei grani antichi raccolti e conservati nella banca del germoplasma dove Rete semi rurali raccoglie e conserva in una cella frigorifera i semi.

E sempre di mondo agricolo parla anche un’altra esperienza tra quelle ritratte da Borzoni e Rorandelli: Mondeggi, nata dall’occupazione contadina di una fattoria di 200 ettari sulle colline fiorentine abbandonata da anni. Oppure, sempre tra gli esempi documentati da We, c'è quello dell’associazione Poveglia per tutti che ha visto una mobilitazione importante, anche economica, per sottrarre l’isola della laguna veneta all’ennesima privatizzazione a fini speculativi del patrimonio demaniale.

“È molto bello vedere che ci sono delle persone che insieme decidono di condividere delle idee e di fare qualcosa di concreto”, dice Borzoni. “C'è una sezione del progetto che è fatta proprio da ritratti collettivi che sono delle visioni di comunità”.

Compongono We anche una scuola nel bosco, il Venice climate camp, gli attivisti di Apuane libere, il Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici. Più complesso è stato invece includere esempi di comunità energetiche, spiega Borzoni, perché nel nostro paese la normativa è ancora indietro.

Scandagliando dunque centri abitati, montagne, boschi, colline e lagune, “i fotografi hanno percorso la penisola italiana alla ricerca di esperienze virtuose, forme di impegno attive e coraggiose che partono spesso dal basso e diventano strumenti di crescita sociale”, si legge sempre tra le motivazioni della giuria. “Un modello di azione che è al tempo stesso presa di coscienza: si agisce insieme perché la forza del cambiamento si nutre delle relazioni fra gli individui”.

Prevenire i mega incendi nella penisola iberica. Il nostro Davide Mancini continua ad approfondire il tema degli incendi nel Mediterraneo. Con due recenti articoli usciti su VoxEurop e Data Journalism Network, Mancini affronta il tema della prevenzione degli incendi boschivi. Nel primo si sofferma sull’importanza della biodiversità per prevenire mega incendi come quello che nel 2017 ha interessato una zona del Portogallo, Pedrogrão Grande, che negli anni interessi industriali hanno trasformato in un’area a forte prevalenza di eucalipti, specie che si presta particolarmente bene a bruciare (VoxEurop). Il secondo articolo invece parla del fuoco come arma per combattere il fuoco, ovvero di come una pratica antica come quella degli incendi controllati possa servire per evitare roghi dalle conseguenze catastrofiche (Data Journalism Network). Ma non è tutto, un altro articolo sull’argomento arriverà a breve.

Ulivi sotto attacco. Finora la guerra su Gaza o le sue ripercussioni non sono state menzionate in questa newsletter. Ma come ha scritto Nina Lakhani, giornalista del Guardian che si occupa di giustizia climatica, nella newsletter Down to Earth del 12 dicembre, citando Francisco Vera, un attivista colombiano di 14 anni che ha parlato a margine della Cop28 a Dubai: "Se vogliamo la giustizia climatica, dobbiamo porre fine alla guerra". Guerra significa distrarre risorse che potrebbero servire per affrontare la crisi climatica, ma significa soprattutto distruzione, anche del mondo naturale e dei suoi frutti. Oppure, come spiega questo video del Guardian, significa maggiore inquinamento e il venire meno di condizioni igienico sanitarie legate all’accesso limitato a risorse fondamentali, come l’acqua, nel caso della popolazione palestinese a Gaza e in Cisgiordania. Inoltre, in Cisgiordania, l'ondata di violenza da parte dei coloni e dell'esercito israeliano in concomitanza con l'inizio della guerra a Gaza ha reso praticamente impossibile la raccolta delle olive, riporta la giornalista Marta Vidal in un articolo di Mongabay. Secondo una stima dell’ufficio delle Nazioni unite per il coordinamento degli affari umanitari di qualche anno fa, questa coltura sarebbe un'importante fonte di reddito per circa 100mila famiglie palestinesi in quest’area. Ma non solo. Vidal sottolinea quanto per i palestinesi gli ulivi siano "uno dei simboli più evocativi della resilienza e rappresentino un legame generazionale con la terra".

L'innalzamento del livello del mare minaccia l'agricoltura nel delta del Nilo. Coltivato da millenni, il delta del Nilo ospita più della metà dei terreni agricoli egiziani. Ma ora, riporta la giornalista Eman Mounir, l’agricoltura in quest’area è minacciata tra le altre cose dall'innalzamento del livello del mare legato ai cambiamenti climatici. Gli agricoltori stanno abbandonando le loro terre perché la salinità sta degradando il suolo e la loro produttività sta diminuendo. In una serie in due parti, Mounir analizza l'impatto dell'innalzamento del livello del mare sul sostentamento degli agricoltori nel governatorato di Kafr El-Sheikh ed esplora quali progetti di adattamento sono in cantiere per proteggere una delle aree più vulnerabili all'innalzamento del livello del mare nel Mediterraneo (Muwatin).

I punti salienti della Cop28. A giochi fatti, abbiamo chiesto a Nathalie Hilmi, ricercatrice in economia ambientale del Centro scientifico di Monaco e tra le autrici dell’ultimo rapporto di valutazione sulle conoscenze climatiche del Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici, un commento sulla 28esima Conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (Cop28). Hilmi infatti era presente a Dubai dove ha partecipato a numerosi panel. Secondo l’esperta di economia ambientale, la conferenza “ha segnato un punto di svolta significativo, affrontando questioni decisive come quelle legate alla graduale eliminazione dei combustibili fossili e alla trasformazione dei sistemi alimentari”. Infatti per la prima volta nell'accordo finale è stato inserito l'invito ad abbandonare i combustibili fossili nei sistemi energetici. Sono stati assunti impegni per ridurre le emissioni di metano e quasi 120 stati si sono impegnati a triplicare la capacità globale di energia rinnovabile e a raddoppiare l'efficienza energetica entro il 2030. Oltre 130 paesi hanno poi firmato una dichiarazione sull'agricoltura sostenibile, riconoscendo il ruolo centrale dei sistemi alimentari nelle emissioni globali di gas serra e impegnandosi a integrare l'agricoltura e i sistemi alimentari nelle loro azioni per il clima. Un altro aspetto importante è stato il ruolo che è stato riconosciuto alla natura e in particolare agli oceani nei negoziati della Cop28. “Il ruolo cruciale dell'oceano ha ricevuto un riconoscimento senza precedenti”, ha commentato Hilmi. “Ma permangono preoccupazioni sul potenziale uso improprio e sull'urgenza di un reale impegno per la riduzione delle emissioni”.

Se dunque la Cop28 rimarrà nella storia per aver segnato un passo importante verso la fine dell'era dei combustibili fossili, Hilmi sottolinea quanto azioni di adattamento esplicite rimangano ancora una sfida significativa. E, in vista delle prossime Cop, conclude, diventa sempre più fondamentale “la necessità di tradurre gli impegni in azioni concrete”.

Accompagnare il volo dell’ibis eremita. Un’organizzazione austriaca cerca da anni di salvare l’ibis eremita dall’estinzione. Un tempo ambita preda di caccia, oggi la piccola popolazione di questa specie che nel tempo è stata ristabilita rischia di essere decimata dai cambiamenti climatici, che ne ritardano sempre di più la partenza verso le rotte invernali. Se infatti le temperature miti autunnali inducono l’ibis a mettersi in volo verso sud sempre più tardi, l'aria fredda dei passi alpini a fine ottobre o novembre ne mette a rischio la sopravvivenza. Per questo il Waldrappteam ha deciso di insegnare ai giovani ibis una nuova rotta, meno pericolosa, accompagnandone un primo gruppo in volo oltre i Pirenei (Bbc Future).

GUIA BAGGI
Giornalista indipendente, scrive di ambiente e nello specifico della relazione tra l’uomo e il mondo che lo circonda. Negli ultimi anni si sta concentrando sugli impatti che i cambiamenti climatici e altre crisi ambientali hanno sull'area mediterranea – ma anche su iniziative legate all'adattamento. Per questo ha ideato e co-fondato Magma.

Grazie per aver letto fino a qui. Ci vediamo a febbraio o prima con Lapilli+.

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